Amare non è semplice dono di sé, ma accettazione dell’altro

di Marco Cingolani

direttore editoriale “La Nuova Scelta”

Un detto popolare afferma che l’uomo nasce solo e muore altrettanto solo, anche se in verità non si è mai soli per una situazione contingente, ma per scelta. Quello che ci fa sentire veramente soli è la mancanza dell’accettazione totale dell’altro, per quello che è, con le sue debolezze e la sua potenziale grandezza, anelito in pratica irrealizzabile, ma al quale ciascuno cerca di dare concretezza perché è l’impellenza più forte che agita l’esistenza dell’uomo.
La vera essenza dell’amore pieno, totale, appagante e soprattutto ispirato alla figura di Cristo, nel senso più rigoroso di seguirne le orme come simbolo della condizione umana ed esempio da imitare, non è il semplice dono di sé, ma l’accettazione dell’altro. Affinché la direzione del dono, e quindi dell’amore, non sia solo proiettata in una direzione, ma si muova in entrambe i sensi e per questo diventi il vincolo vero di collegamento e di comunione con gli altri, facendoci sentire parte di essi e parte del mondo e della società in cui viviamo, è necessario che sia rappresentata dall’accettazione totale dell’altro, senza filtri pregiudiziali che escludono quelle parti di lui che non ci piacciono e che finiscono per escludere anche tutta la sua persona.
Chi sa accettare, sa anche amare, mentre chi offre in dono tutto di sé, non necessariamente sa esprimere un bene incondizionato.
In qualche modo chi dona, anche con generosità, anche con sacrificio di sé e dei suoi beni, ma non riesce ad accettare pienamente l’altro per quello che è, si espone al più grave rischio della donazione, che è quello di pretendere di ricevere una contropartita, di essere gratificato della sua generosità con la riconoscenza, vanificando in tal modo del tutto anche l’atto di generosità più nobile, rendendo sterile il suo cuore e facendogli percepire un senso di delusa scontentezza e di profonda solitudine.
In questo modo la particella vitale di fuoco eterno, la scintilla divina che ciascuno di noi riceve da Dio, se non è incline a vivificarsi con il calore che promana dalle altre particelle eterne, si raffredda, si spegne e si blocca del tutto in un immobile turbamento.
Più si accoglie la fiamma ardente che anima gli altri, in un reciproco, ardente trasporto, più si vivifica la propria anima e si riscalda il proprio cuore, pronti a dare agli altri questo calore, che diventa sempre più forte, addirittura incandescente, fino a farci arrivare ad un livello di magica emozione che ci mette in diretto contatto con Dio.
Questa è l’unica strada concessa agli uomini per avere la percezione diretta di Dio, l’unica che ci ha indicato suo figlio, e che facciamo così fatica a capire e soprattutto a seguire, perché l’apparenza delle cose soffoca la fiamma della verità. Costruirsi una corazza, che ci sembra protettiva e che quindi in qualche modo ci tranquillizza, perché ci da la sensazione di essere al sicuro, soffoca invece l’anelito di essere parte concreta ed attiva dell’umanità, ci isola, ci fa sentire soli ed insoddisfatti, ed effonde nell’animo una sensazione di fallimento totale.
Una volta che la si sia indossata è difficile togliersi questa protezione, eppure non ci sono alternative, non ci sono altre possibilità, perché non essere preparati ad accettare gli altri per quello che sono, a prescindere da qualunque conflitto educativo o relativo alle contingenze della vita, non permette all’amore che vogliamo esprimere di arrivare fino a quella interiorità profonda dell’anima che consente all’altro di percepirlo. E se non lo percepisce, non lo capisce neppure e non ne ricava quel senso di calore e di appagamento che rendono il dono fecondo.
Dio si mostra più facilmente agli umili e ai più deboli, quelli che definiamo puri di cuore, non perché siano più fragili o più insicuri degli altri, ma perché semplicemente sono più propensi ad accettare la natura degli altri per quello che è e configura, il che non è altro che amore totale e disinteressato.
È questo il significato vero, la giusta interpretazione del “sia fatta la Tua volontà” della preghiera rivolta al Padre, della nostra natura di uomini, poveri, deboli, incapaci e quindi tristemente soli ed inappagati se non siamo pronti ad accettare la Sua volontà, che non è predominio, volontà capricciosa o dispotica, ma è sostegno, amicizia, insegnamento, guida e calore. La Sua volontà è la metafora della grazia e chi l’accetta è disposto ad aprirsi ad essa, l’unico vero dono, dopo la vita, che ne è premessa indispensabile e che costituisce il viatico per affrontare senza cedimenti e al riparo da ogni avversità le difficoltà del percorso di ritorno alla Sua casa.
La vita è la mappa del viaggio, la grazia l’itinerario da percorrere.
Non sono dissertazioni metafisiche, ma concetti concreti che non riusciamo pienamente a capire solo perché le infrastrutture di cui ci siamo circondati, nella convinzione di rendere meno disagevole il viaggio, alla fine hanno preso il sopravvento e ci hanno fatto perdere di vista l’essenza del significato di vivere.
Il mezzo è diventato fine e ha impoverito, fino a renderla arida e sterile, l’energia vitale che ci è stata consegnata all’inizio della vita e che deve costituire le riserve di sopravvivenza per arrivare alla fine del viaggio attivi e vigorosi e non al contrario sotto forma di spoglie imputridite che cercano di sopravvivere alla morte dell’anima prolungando la permanenza del corpo con espedienti più o meno efficaci, ma totalmente inutili.
Anche se tecnica e medicina riuscissero mai, in un futuro più o meno lontano, ma forse più vicino di quanto non si pensi, a prolungare all’infinito la vita di un corpo tanto meraviglioso, per diversi aspetti, quanto fragile e privo di significato se ritenuto fine a sé stesso, perché in tal senso è solo un semplice involucro, sarebbero riuscite soltanto a prolungare ansie, dolori ed insoddisfazioni, perché l’unico aspetto che conta è tenere viva l’anima, che è eterna solo fino a quando e per quanto decidiamo di mantenerla vivida e vigorosa. Ma per mantenerla in vita non c’è altra strada percorribile che quella dell’accettazione: di Lui, della Sua Volontà e di conseguenza dell’altro, che è la Sua manifestazione più pura e compiuta.
La morte dell’anima è una nostra scelta, è il rifiuto di Dio, perché l’anima ne è l’immagine vivente, la fotografia che ci portiamo dietro per ricordarci chi siamo, da dove veniamo, quale è la nostra matrice originaria e dove dobbiamo, e vogliamo, tornare. In fondo tutti i comandamenti divini impressi nel nostro cuore si possono compendiare in uno solo, compresa l’ indispensabile premessa “Io sono il Signore Dio tuo”, e questo unico comandamento si rende meglio con l’espressione ”accetta il tuo prossimo ed accetterai te stesso” piuttosto che con “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Così la tua accettazione diventa dono fruttifero, perché genera amore, e l’amore è l’unico cibo che riesca a mantenere viva e rigogliosa l’anima. L’anima si mantiene pura e luminosa, e perciò eterna, non unicamente quando non viene macchiata dal peccato, che in fondo non è altro che l’espressione più evidente della nostra limitatezza, ma allorché viene continuamente ripulita dalla potenza detergente dell’amore, che diventa amore per Dio solo quando passa attraverso la comprensione della pochezza e, al contempo, della grandezza dell’altro.
Nessun uomo è veramente insensibile e malvagio se non lo si induce ad esserlo e in questo ciascuno di noi ha indubbiamente delle gravi responsabilità.

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