L’assoluto, l’irrealizzabile e la certezza dell’incertezza

di Emilia Leveratto

Studentessa di Filosofa

Assoluto, dal latino absolutus, è uno di quegli aggettivi che usiamo spesso, senza sapere come coglierne il concetto profondo. Treccani lo definisce ‘libero da qualsiasi limitazione, restrizione o condizione’ e soprattutto ‘urgente e imprescindibile’. C’è una filosofa che nel ‘900 ha fatto di questa parola tutta la sua filosofia: Jeanne Hersch. Nata a Ginevra nel 1910, studiò con Heidegger, scrisse la tesi su Bergson, ma il suo vero ispiratore fu Karl Jaspers, poiché l’affinità intellettuale era tale che le loro voci costituivano un monologo. La sua filosofia può essere ricondotta all’esistenzialismo novecentesco anche se, non comparendo ancora sui libri di scuola, la sua fama è ancora molto limitata. Il coronamento della sua carriera arrivò sicuramente nel 1966, quando venne chiamata a dirigere la divisione di filosofia dell’Unesco. La grandezza di questa filosofa si può cogliere nel suo modo di articolare concetti esistenziali, come dignità e riconoscimento, all’interno di una visione limpidissima della nostra società e dei problemi contemporanei. Non dimentichiamo che parte da uno studio dell’analitica esistenziale heideggeriana, ma vive nell’epoca del totalitarismi. La filosofia hershiana è puramente cosmopolitica e sentimentale, nel senso di elaborazione razionale dei sentimenti. È una filosofia che non dà risposte, non classifica enti, né immagina esperimenti mentali, bensì analizza l’uomo e il suo rapporto con il mondo e in particolare con l’assoluto. Hersch ritiene che l’uomo per natura sia caratterizzato da una tensione ad andare oltre alla fisica e che abbia bisogno di qualcosa di più della scienza per sopravvivere. Si parla di verità penetranti, più alte, che ci permettono di andare oltre al nostro essere finiti e limitati. Si parla di quell’ambito dove la conoscenza umana può solo fare ipotesi, ma che, per quanto incerta, è ugualmente necessaria. L’assoluto per Hersch è un orizzonte trascendentale che ci permette la progettualità. In un chiaro riferimento ad Heidegger, la filosofa ci dice che immaginare il nostro futuro è ciò che ci rende vivi – d’altro canto, la morte è la fine del progetto -. L’orizzonte trascendentale di Hersch non è altro che un sinonimo della trascendenza di Jaspers o del ‘vuoto che orienta’ di Simone Weil. Cusano nel de pace fidei mette in evidenza l’inadeguatezza dell’uomo finito nel poter cogliere l’infinito. Ci sarà sempre uno scarto che corrisponde al poligono inscritto nel cerchio. Hersch, in riferimento all’assoluto, parla anche di diritti umani. L’articolo 1 della Dichiarazione Universale recita: “Tutti gli essere umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Le fondamenta poggiano su un’esperienza affettiva universale, di cui ogni uomo fa esperienza: l’urgente e imprescindibile bisogno di essere riconosciuto dagli altri inquanto uomini, con una propria dignità. In questo senso i diritti umani non sono un concetto, bensì un ‘sentire’ che accomuna tutti. L’uomo, in quanto tale, ha un’esigenza assoluta di rispetto e riguardo. L’uomo è necessitato da una dimensione puramente naturale, ma paradossalmente la spinta a raggiungere quell’orizzonte assoluto, irrealizzabile nell’ hic et nunc, è proprio ciò che ci garantisce la realizzabilità dei diritti. Nello stesso modo che nei diritti umani, l’infinito è irrealizzabile nel finito per ovvi motivi e inoltre non sarebbe neanche auspicabile. Così la filosofia hershiana propone un principio spettacolare che andrebbe applicato Nel riconoscere che questo orizzonte è irrealizzabile, ognuno di noi deve essere universalmente: l’assoluto non posseduto e il corollario di rispetto intersoggettivo. conscio del fatto non sarà neanche possibile il suo possesso e che, non appena assolutizziamo il nostro giudizio, stiamo già limitando quello altrui. Ognuno deve poter avere una propria esperienza dell’assoluto, ma nessuna sarà mai più valida o più dignitosa di un’altra.

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