Magistratura, toghe, carriere: storia e attualità

di Maurizio De Matteis

Magistrato, giudice in pensione, già Consigliere della Corte d’Appello di Genova

 

Informare è anche spiegare, far sapere

Da sempre, ogni vicenda legata al potere giudiziario è argomento che trova grande spazio nell’informazione. In questo periodo poi costituisce motivo di ampio dibattito, forse che più che in atri momenti, la cosiddetta separazione delle carriere.
Se ne parla e se ne sente soprattutto parlare molto, ma probabilmente la maggior parte dell’opinione pubblica ignora di cosa si tratti a livello tecnico, come sia il funzionamento e su cosa verta il dibattito.
Al di là ed assolutamente al disopra delle parti, con rispetto rigoroso di tutti ed  informando di ogni idea (linea che permea e definisce questo giornale) senza alcuna nostra implicazione o tantomeno presa di posizione politica, pubblichiamo il contributo importante e facciamo spiegare il tema a livello tecnico a Maurizio De Matteis, un insigne e stimato magistrato ora in pensione, dopo una carriera di grande prestigio e che è stato pm e giudice.
La sua storia è di eccellenza e competenza. Ha accumulato grande esperienza trattando casi delicati e di grande portata e persino clamorosi, per cui la sua preparazione ed il suo equilibrio sono una garanzia di conoscenza della materia. Ed in questo pezzo ci fa conoscere anche molti elementi storici assai interessanti e poco, se non per nulla, conosciuti ai più.
                                                                                                                                                                         (d.f.)

Prima della nascita degli ordinamenti moderni, il pm era semplicemente il rappresentante del Re (Procuratore del Re) o comunque del Sovrano presso il giudice, dapprima investito del solo potere di tutelarne gli interessi patrimoniali, ad esempio attraverso l’esazione delle ammende e delle imposte, e successivamente incaricato della repressione penale attraverso l’esercizio dell’azione nel giudizio penale, trovandosi così a svolgere funzioni archetipiche del P.M. Con l’ordonnance criminelle del 1670, nella Francia diventata presto modello nella materia, i Procuratori del Re venivano organizzati capillarmente e gerarchicamente presso tutte le corti e incaricati dell’iniziativa e dell’accusa nel processo penale, oltre che della funzione requirente, in virtù della quale i giudici non potevano decidere senza avere ascoltato le conclusioni del Procuratore. Naturalmente questi organi dell’accusa dipendevano dal sovrano che, nell’ordinamento non solo francese, era il vertice del potere esecutivo.

Dopo la rivoluzione francese si affermarono nell’Europa continentale codici di procedura penale di tipo inquisitorio redatti sul modello Francese, nel quale non solo si consacrava la tipica funzione accusatoria del pm, ma essa veniva arricchita dalla attribuzione allo stesso organo di funzioni requirenti in materia civile e anche di funzioni giudiziarie, quali il potere di archiviazione, la conduzione dell’istruttoria sommaria e spesso anche l’applicazione di misure cautelari, come l’ordine di cattura del pm, disciplinato nel nostro sistema fino agli anni 80 del 900. Una tale attività appariva incompatibile con l’originaria natura del P.M. quale rappresentante degli interessi dello stato e ne delineava una funzione di organo di giustizia, sempre soggetto alle direttive dell’esecutivo, ma obbligato a promuovere un ordine superiore, quello della giustizia oggettiva, fino a quella funzione cosiddetta di nomofiliachia (vigilanza sulla corretta e uniforme applicazione della legge) perseguita ancora oggi dalla Cassazione. Questo spiega l’obbligo del pm, più recentemente stabilito espressamente nel nostro codice di procedura penale, ma implicito nel sistema, di valutare le ragioni e le domande di tutte le parti cercando anche gli indizi favorevoli all’imputato.
Si veniva così a delineare in molti ordinamenti continentali un ruolo “paragiudiziario” del P.M., che suggeriva una sua assimilazione al giudice in un unico ordine, realizzata progressivamente sia in Francia che in Italia. Così, con progressivi interventi, in Italia culminati nell’ordinamento giudiziario del 1941, il pm veniva inquadrato insieme al giudice nel medesimo ordine giudiziario, ma posto alle dipendenze del Ministero della Giustizia per l’esercizio delle sue funzioni. Questa situazione è rimasta sostanzialmente invariata in Francia, mentre è stata modificata radicalmente nel nostro paese dalla Costituzione repubblicana, che, ribadendo l’unicità dell’ordine giudiziario, lo ha dichiarato soggetto solo alla legge, indipendente dagli altri poteri, in particolare dal potere esecutivo, che conserva solo una residuale iniziativa disciplinare del Ministero della Giustizia. In questo contesto il pm fa dunque parte dell’ordine giudiziario, gode delle stesse garanzie dei giudici, ne condivide formazione e carriera, regolata da un organo di rilevanza costituzionale (il Consiglio Superiore della Magistratura), composto in maggioranza da magistrati eletti da magistrati. Infine, l’azione penale, esercitata dal P.M., è definita obbligatoria dalla Costituzione, che ha eliminato ogni discrezionalità nella materia, perché avrebbe potuto giustificare una qualche interferenza di altri poteri. Questo sistema, consacrato dalla nostra Costituzione, è pressoché unico. Innanzitutto i numerosi paesi di common law (praticamente tutti quelli di cultura anglosassone) neppure si pongono i nostri problemi. Lì il pm è rappresentante di particolari soggetti, siano essi lo Stato o le vittime, e conseguentemente esercita un mandato fiduciario, con la necessaria discrezionalità e l’obbligo di rispettare il mandato ricevuto. Non è un organo di giustizia e non fa parte dell’ordine dei giudici.

Nei paesi cosiddetti di civil low, prevalentemente continentali, il giudice è professionale, selezionato di solito per pubblico concorso, gode di particolari garanzie di indipendenza, ma dipende spesso dal potere esecutivo. In particolare il P.M., anche laddove fa parte dell’ordine giudiziario insieme ai giudici, dipende gerarchicamente dal Governo o dal Ministero della Giustizia, come in Francia. Spesso invece, anche nei paesi continentali, il P.M. fa parte dell’esecutivo e non è neppure inquadrato nell’ordine giudiziario. In altre parole in quasi tutte le democrazie del mondo il P.M. dipende dall’esecutivo ed ha una carriera diversa e separata da quella del giudice. Il nostro originale sistema, motivo di orgoglio nella nostra cultura giuridica, non è mai stato messo in discussione fino all’entrata in vigore del nuovo processo penale, nel 1989. Il nuovo codice, unico redatto in epoca repubblicana, ha tendenzialmente sposato il modello accusatorio tipico dei paesi di common law, eliminando così ogni attività paragiudiziaria del P.M., che non può più svolgere attività istruttorie, ma solo attività di indagine, che non costituiscono prove. Ora il pm può solo formulare richieste al giudice. Tuttavia lo stesso codice gli affida un ruolo di parte in senso solo processuale, imponendogli un onere di imparzialità che lo assimila al giudice, specie laddove espressamente gli impone di cercare anche gli elementi a favore dell’imputato. Inoltre il pm conserva quella funzione di tutore della corretta applicazione della legge, che lo rappresenta come organo di giustizia, insieme alle tante competenze civili che pure ne consacrano un ruolo pubblico al di sopra delle parti. Malgrado il carattere indubbiamente ambiguo del ruolo del pm nel nuovo processo, una parte della dottrina e anche molti autorevoli magistrati, hanno cominciato a vagheggiare una separazione delle carriere di giudice e pm, a loro avviso giustificata dal ruolo accusatorio del Procuratore della Repubblica e dalla conseguente necessità della sua specializzazione.

L’argomento, com’è noto, è stato poi al centro di un acceso conflitto politico e istituzionale, determinato dal lamentato protagonismo dei pm, di solito accompagnato da una informazione sensazionalistica, e smentito da sentenze di merito che molto spesso vanificano indagini imponenti e clamorose. L’unico risultato è costituito da disposizioni che hanno limitato variamente il passaggio tra le funzioni di giudice e quelle di pm. Correlativamente, è stato imposto ai giudici ordinari l’obbligo di cambiare funzioni ogni dieci anni, con l’unica eccezione dei P.P.MM. e dei magistrati ritenuti “specializzati” (giudici del lavoro, giudici minorili, ecc.). Conseguentemente, nel nome di un culto della “specializzazione”, che ora domina la carriera dei magistrati, si è di fatto creata una separazione delle carriere, nel senso che di solito i PP.MM. svolgono le funzioni requirenti per tutta la loro carriera, risultano pochissimi e irrilevanti i passaggi da una funzione all’altra, che comunque impongono il cambiamento della sede geografica.

Dopo molti tentativi di modificare l’ordinamento separando le carriere dei giudici e dei PP.MM., abbandonati dopo aspri scontri istituzionali, si è arrivati al nuovo progetto di riforma costituzionale, congedato in prima lettura al senato. In esso il pm resta nell’ordinamento giudiziario e condivide con i giudici la unitaria selezione mediante concorso e la prima formazione. Al momento dell’assunzione delle funzioni dovrà scegliere la funzione requirente (pm) o quella giudicante, funzione che poi dovrà esercitare per tutta la carriera. Malgrado ciò il pm resta indipendente dall’esecutivo e la sua carriera è regolata da un Consiglio Superiore identico a quello dei giudici, sempre a composizione maggioritaria di magistrati. Infine viene istituito un organo a parte (Alta Corte) destinato a giudicare in sede disciplinare sia i giudici che i PP.MM., organo in maggioranza composto da magistrati. Così la riforma separa le carriere di PP.MM. e giudici, mantenendo tuttavia una comune selezione, una identica indipendenza e un comune regime disciplinare, oltre ad una comune formazione che garantisce una eguale cultura giurisdizionale. Il tenore della riforma dunque non giustifica dunque né le aspettative dei favorevoli né le paure dei contrari. In sostanza non cambierà nulla, visto che già adesso quasi nessuno cambia carriera. I toni alti del dibattito manifestano solo una endemica asprezza dello scontro politico istituzionale sul tema, anche se si avverte nell’opinione pubblica una certa stanchezza, che fa apparire l’attuale riforma in corso come ineluttabile anche se non decisiva. Sicuramente essa non diminuirà l’esposizione mediatica del P.M., che costituisce la vera causa di quel protagonismo lamentato da molti. Piuttosto, sarebbe più utile un atteggiamento diverso di tanta informazione. Se essa, rinunciando ad ogni corrivo sensazionalismo, raccontasse i punti critici di tante importanti inchieste o decisioni, invece di fare l’ufficio stampa e propaganda delle Procure (se non addirittura di singoli Pubblici Ministeri o di singoli magistrati) forse tante assoluzioni definitive, spesso prevedibili tra gli operatori del settore, apparirebbero meno sconcertanti. E sarebbe anche auspicabile una grande sobrietà da parte dei magistrati, sì da non essere o anche solo apparire militanti anche della più giusta causa. Perché una cosa non va dimenticata: il compito della giustizia non è quello di risolvere questioni sociali o politiche, e meno che mai quello di esercitare un
improprio “controllo” su altri poteri dello stato, ma solo quello di dirimere singole concrete controversie. Ed è già un gran lavoro.

 

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